L’opinione dello speleo
 

Ho letto con il massimo interesse l’intervento di Mauro Kraus sul Catasto, un nome che suscita in me molti ricordi, purtroppo non tutti lieti; probabilmente la gran parte dei lettori de La Gazzetta sono troppo giovani per sapere che sono stato per quarant’anni il curatore del catasto della Venezia Giulia e forse lo sarei ancora oggi se Marino Vianello non avesse fatto presentare a Sergio Coloni – suo collega di lavoro e poi parlamentare – una legge finalizzata a statuire l’importanza e il ruolo della speleologia, nonché a fornirle le risorse finanziarie per iniziative più qualificanti della tradizionale attività esplorativa. Gli estensori commisero però un grave errore, le cui conseguenze si scontano tuttora, avendo dimenticato di ufficializzare l’esistenza degli àmbiti dove si esplica l’azione speleologica, le grotte, le quali sono rimaste così entità indefinite e quindi prive di tutela e di valore per l’umano consorzio, già mal disposto nei loro confronti a causa di ancestrali e radicati pregiudizi.

Avviato sistematicamente nel 1896 da Eugenio Boegan, il Catasto aveva ricevuto una solenne consacrazione con il Duemila Grotte e solo verso la metà degli anni ’50 la sua egemonica gestione venne contestata da una velleitaria quanto effimera coalizione di alcuni gruppi. Il primo venerdì del mese aveva luogo la riunione per la presentazione delle nuove grotte, una simpatica occasione per scambiare notizie varie e magari anche per chiarire qualche malinteso, non raro nel vivace mondo dei grezzi grottisti dell’epoca. Dialogando con gli scopritori e grazie all’approfondita conoscenza del territorio e dei contenuti del Catasto era possibile stabilire sul momento se una grotta era inedita e pertanto il numero veniva assegnato subito, senza bisogno di alcuna verifica; se vi era qualche dubbio, l’accettazione restava in sospeso in attesa di un controllo sul posto, effettuato prima della seduta successiva. Allora il Catasto serviva solo per accertare se la grotta che avevi trovato non era ancora inserita e i suoi fruitori erano quasi tutti grottisti di Trieste, i quali sapevano benissimo quale era la qualità dei suoi dati, provenienti da persone prive di una specifica preparazione in topografia e rilievo ipogeo. Intanto procedeva alacremente il rifacimento delle posizioni e dei rilievi datati o mancanti, un’opera andata avanti per quindici anni e rimasta inutile allo scopo che l’aveva ispirata, ma questa storia l’ho già raccontata.

Il 25 maggio 1968 entrò in funzione il Catasto istituito dalla Regione con la Legge n. 27 del 1966, la quale aveva previsto che i suoi strumenti erano un registro, le tavolette IGM con le posizioni e una scheda con la riproduzione semplificata del rilievo più recente. La burocratica impostazione dell’asettico clone escludeva ogni travaso dell’imponente patrimonio storico presente nelle cartelle VG, dove ogni pezzo di carta è un documento insostituibile, a volte uscito proprio da sotto terra, con tracce di argilla e di remoti stillicidi. Sarebbe stato inutile cercare di spiegare ai funzionari regionali che nel vecchio mobile stavano gli spiriti di tre generazioni vissute nel periodo in cui il grottismo giuliano era stato autenticamente popolare, proletario, modesto e soprattutto povero, ragion per cui ogni critica sul suo operato sarebbe stupida e ingenerosa.

Era la metà degli anni ’80 quando cominciò a verificarsi un fenomeno nuovo e imprevedibile, con l’arrivo di persone estranee alla speleologia, interessate alle grotte per ragioni diverse e non sempre dichiarate, le quali credevano di consultare un archivio dalle notizie di pieno affidamento ed era quindi molto imbarazzante spiegare che la grotta poteva non trovarsi nel punto indicato e che la sua rappresentazione grafica era un prodotto amatoriale di incerta esattezza. Qualcuno non faceva commenti, ma altri manifestavano apertamente la loro contrarietà per essere finiti in un ufficio di incapaci pasticcioni. La situazione era per me insostenibile e nel 1988 cedetti ad altri l’incarico, continuando a curare il Catasto VG, fin quando esso divenne una dépendance dell’altro, dove le grotte si accettavano senza alcun esame critico. Nel frattempo era arrivata l’informatica, che a qualche ingenuo progressista parve l’escamotage che avrebbe messo a posto ogni cosa, non tenendo conto che il computer non ha un filtro depuratore, per cui se vi butti dentro materiale scadente lui lo risputa tale e quale, avendogli però conferito un ingannevole marchio d’origine, in realtà incontrollata. Non vi è dubbio che il sistema – gestito professionalmente con programmi studiati ad hoc – è in grado di fornire elaborazioni fuori della portata della mente umana e si può immaginare quali preziosi orientamenti si otterrebbero immettendo per ogni cavità dati completi, ricavati con metodi codificati e strumentazioni tecnologicamente avanzate, un sogno utopico se si considera la penosa lentezza con la quale procede la revisione delle sole posizioni, alle prese con una miriade di ingressi tutti uguali e con tante grotte introvabili.

Avendo riscontrato che il Catasto Regionale utilizza ancora le CTR del 1980, che occorrono due anni per avere un numero e che certi rilievi sono peggiori di quelli di cento anni fa, è legittimo pensare che qualcosa non abbia funzionato a dovere, ma l’attuale contestazione potrebbe tacere surrettiziamente intenti di altro genere. È triste comunque constatare che i soldi elargiti a pioggia, in luogo di frenare l’innegabile fase recessiva della nostra speleologia, sono stati una medicina inutile dai deleteri effetti collaterali ed è significativo ricordare che in greco farmaco vuol dire veleno. Non intendo con questo esser ingrato verso i padri della Legge 27, ma son convinto che sarebbe stato meglio andar avanti come prima, con il Catasto VG a Trieste e quello del Friuli a Udine, due realtà affatto diverse nella fisionomia geografica e nella formazione degli uomini.

Ottant’anni fa Bertarelli mise mano al bilancio del Touring per proporre la speleologia quale disciplina ectopica alla scienza e Finocchiaro ne continuò l’azione promotrice con iniziative nuove e originali; poi qualcosa si è inceppato e nel Terzo Millennio non si riesce ad esprimere un esponente super partes capace di rappresentare autorevolmente le istanze e i meriti della speleologia, la quale sta sempre nel tunnel oscuro dove l’ha relegata l’ignoranza dei media e della cultura “ufficiale”. Chi avesse qualche dubbio in proposito consulti i primi due tomi della nuova enciclopedia tematica del Friuli-Venezia Giulia, nei quali ignoti “esperti” enunciano inverosimili panzane sul mondo che ci è caro. Ne cito, tra le tante, una sola, secondo la quale le foibe sono “anfratti naturali”, “buche” ed anche “cimiteri a cielo aperto”, in quanto “nel corso della Prima Guerra Mondiale vi si seppellivano i militari caduti in combattimento”; “attorno a Trieste se ne contano, più o meno, 1700”, però tutte sono situate “in territorio istriano”.

La Grotta Impossibile ha dato una momentanea “visibilità” alla speleologia, la quale per essere credibile non deve millantare inesistenti capacità indagative o illudersi d’essere socialmente meritoria. È vero tuttavia che Schmidl e Martel hanno dimostrato come la speleologia – agendo nei recessi naturali congeniali alla sua vocazione più vera – possa giovare alla scienza e all’igiene pubblica, studiando i regimi delle acque sotterranee ed i modi per evitarne l’inquinamento; erano però altri tempi, mentre oggi lo speleologo viene chiamato quando proprio non se ne può fare a meno, salvo poi pentirsi per non aver chiuso subito il malaugurato buco.

La storia racconta che il bravo Eugenio è sceso migliaia di volte con i suoi strumenti al fiume di Trebiciano e che Polley progettava di aprire un varco con le mine sopra il sifone d’entrata. Tra il 1999 e il 2004 sono state scoperte quattro grotte afferenti l’acquifero timavico, ma le esplorazioni sono state subito abbandonate davanti a difficoltà che non avrebbero certo fermato i vecchi pionieri, sorretti – in povertà di mezzi – dalla determinazione e dall’entusiasmo che abbiamo perso per la strada. La querelle sul Catasto mi sembra quindi un polverone sollevato per coprire la condizione catatonica della nostra speleologia, la quale sconta la sua remota origine e l’affievolirsi delle motivazioni idealistiche presenti prima di finire nel mare magnum dell’assistenzialismo. Sopite per ora le sottaciute rivalità e le pulsioni campanilistiche, un inopinato processo di coalescenza ha radunato i gruppi attorno al gonfalone anticatasto, una manifestazione di vitalità che non mi convince affatto. A scanso di equivoci preciso che le opinioni qui esposte impegnano esclusivamente la mia persona e che esse sono maturate in oltre cinquant’anni di costante osservazione dell’attività speleologica nella Venezia Giulia. Una referenza: la prima grotta l’ho rilevata nel 1955 e la più recente – non l’ultima – qualche mese fa. E per finire un quiz: chi ha scoperto l’Abisso Gortani nella mattina del 10 agosto 1963?

Dario Marini

 

Sul numero 109 de La Gazzetta, Mauro Kraus ha affrontato l’argomento del catasto delle grotte, esprimendo quella che è la visione di una delle speleologie possibili. Leggendo l’intervento di Mauro mi sono reso conto che, per quanto rispettabili entrambe, le nostre speleologie personali sono differenti. Diverse sono anche le idee di fondo relative ad un catasto, al suo significato, utilità e modalità di gestione. Diverse idee e visioni, nate da storie differenti, concorreranno, lo speriamo, a determinare il futuro di questa realtà, ed è importante che vengano rese esplicite, per lo meno da parte di chi ha voglia di esprimersi. È per questo motivo che ho deciso di esporre un punto di vista che, rimanendo personale, ha un valore limitato. La speleologia per alcuni, fra i quali mi includo, è innanzitutto esplorazione scientifica. Scoprire nuove porzioni di territorio, studiarle, tentare di comprendere come è fatta la montagna “dentro”. Questo è lo scopo della speleologia secondo me. Un’opinione che vale tanto quanto quelle altrui, ovviamente. Noi speleologi siamo in verità un mondo piuttosto complesso, la cui intricata realtà può essere paragonabile solo alla geografia delle isole della Dalmazia (mi si perdoni il bizzarro paragone). Difficile, anzi, estremamente difficile, è riuscire a dare una definizione di speleologia accettata da tutti i frequentatori delle grotte, o per lo meno da una parte consistente di essi. Eppure la speleologia ha una genesi precisa, esplorativa, scientifica e tecnica. Esplorazione scientifica fu la ricerca del Timavo nel XIX secolo, così come lo furono gli studi naturalistici degli speleologi udinesi degli stessi anni. All’inizio del XX secolo i dati acquisiti dagli speleologi, che raggiungevano allora il massimo livello di qualità, iniziarono ad essere consistenti e nacque il desiderio di fare sintesi, di organizzare i dati in modo da poterli meglio interpretare, nell’eterno tentativo di comprendere la natura. Un giovanissimo Giovanni Battista De Gasperi compilò la monografia Grotte e Voragini del Friuli pubblicata postuma su Mondo Sotterraneo nel 1916. Pochi anni dopo (1926) furono Boegan e Bertarelli a dare alle stampe il Duemila grotte. Sono cataloghi di cavità. Oggi li chiameremmo dei data-set su supporto cartaceo. A ben pensare, si tratta proprio di due esempi di catasto, nati nella prima metà del secolo scorso, e conseguenza di una mentalità profondamente lontana da quella della maggior parte della speleologia di oggi. De Gasperi non disdegnò di certo le foto in compagnia delle bottiglie, ma quando scese nella valle del Senio non fu per esportare il granpampel, ma per studiare le grotte nel gesso, proprio là dove molti anni più tardi i suoi eredi avrebbero preferito rovinarsi la salute con gioiose bevute e danze sfrenate. Sono senza ombra di dubbio uno di questi ultimi, non lo nego.

L’attuale Catasto Regionale è la conseguenza di un incontro fra le esigenze degli speleologi e quelle dell’Amministrazione Regionale. Gli speleologi avevano raccolto talmente tanti dati da trovare impossibile gestirli e condividerli senza organizzarli. La Regione iniziava a comprendere che la conoscenza del territorio è necessaria per la sua gestione e pianificazione. Così la LR 27/66 sancì la nascita del Catasto. Gli speleologi nel corso degli anni si sono evoluti, apprendendo nuove tecniche di progressione ed aumentando le proprie capacità esplorative. Sono anche aumentati in numero ed hanno preso ad organizzarsi sempre più, hanno molti più soldi a disposizione. Ma lentamente hanno perso terreno rispetto ai loro predecessori, a gente come Boegan o De Gasperi, Feruglio, Gortani. Scusate se cito troppo i “miei” consoci, è la storia. Abbiamo perso collettivamente terreno, anche se alcune capacità sono rimaste, individualmente. Quarant’anni fa, quando mio padre andava in grotta, quasi tutti sapevano fare un dignitoso rilievo. Oggi a giocare con bussole ed altri infernali strumenti siamo rimasti in pochi, ma non credo sia per una mancanza di amore per le grotte, né credo che sia compito del Catasto promuovere la formazione degli speleologi. Anzi ne sono certo, la legge istitutiva non ne parla. Vero è che negli ultimi anni ci siamo sentiti sempre più assimilati ad utenti del Catasto, invece che a collaboratori. Questo è un grave errore, che non può far altro che ridurre la funzionalità di quell’ufficio. Mi preme ricordare che si tratta di un ufficio dell’Amministrazione Regionale, quindi di un patrimonio di tutti i cittadini, non solo degli utenti, dei collaboratori o degli speleologi. Eppure qualcosa di speciale noi speleologi abbiamo, nei confronti di questo ufficio: siamo coloro che forniscono i dati. Senza dati un catasto non esiste.

Senza aggiornamenti un catasto diventa obsoleto ed inutile. Ebbene, nonostante la gran confusione che regna, come sempre, siamo certi di una cosa: i rilievi li fa chi va in grotta. Io trovo che il Catasto sia utile a me, come studioso del mondo sotterraneo, sia utile ai professionisti, agli amministratori, agli escursionisti, alle forze dell’ordine. Ovviamente i dati devono essere di buona qualità, e questa è responsabilità ed orgoglio della speleologia. Altrettanto ovvio è che la voglia di fornire dati di elevata qualità passa se ci si sente trattati come il proverbiale figlio della serva. Nonostante le recenti incomprensioni ritengo che sia, innanzitutto, doveroso essere capaci di fornire quel genere di dati, e farlo bene. Chi deve formarci? La LR 27/66 lo dice chiaro e netto: l’Amministrazione Regionale finanzia iniziative volte alla formazione degli speleologi. Ci danno dei finanziamenti, usiamoli. Per decenni abbiamo confuso la speleologia con la progressione in grotta, abbiamo quindi deciso di chieder soldi per le scalette ... pardon corde e non per acquistare ed imparare ad usare i moderni strumenti di esplorazione scientifica. Tutti abbiamo bisogno di una sede ed altri “strumenti sociali”, di corde e lampade, ma tutto questo serve ad un’attività, non ha senso di esistere altrimenti. Credo che abbiamo sbagliato anche noi, e mi pesa dirlo, perché nella speleologia di questa regione sono cresciuto. È stato uno sbaglio che ci ha fatto perdere prestigio, credibilità, ma sopra tutto una impressionante serie di opportunità di crescita. Oggi stiamo prendendo coscienza di tutto questo, insieme. Vorrei che gli speleologi del Friuli - Venezia Giulia approfittassero dell’occasione che è stata creata, dalla loro Federazione Speleologica Regionale, per dialogare, interagire con il Catasto, con l’Amministrazione Regionale, contribuire e soprattutto per riappropriarsi definitivamente di quel ruolo imprescindibile di collaboratori, seppur volontari, di un importantissimo ed utile strumento che viene messo a disposizione della collettività.

Giuseppe A. Moro