In ricordo
Egizio Faraone

Recentemente Trieste ha perso un suo benemerito figlio, classe 1936, studioso appassionato e apprezzato indagatore di un settore particolare della storia della nostra città, quello del suo approvvigionamento idrico. Aveva iniziato il suo percorso di ricercatore divenendo, nei primi anni ’60, membro della Commissione Grotte “E. Boegan” della Società Alpina delle Giulie, dedicandosi all’inizio all’archeologia carsica insieme a Francesco Stradi e Sergio Andreolotti nell’ambito della Sezione Scavi e Studi di Preistoria Carsica “R. Battaglia”. In questa struttura il suo contributo si rivela prezioso sia come operatore sul campo sia quale relatore o correlatore dei contributi scientifici successivamente realizzati. Sono di questo periodo le scoperte del tempio ipogeo del dio Mitra presso Duino, di una complessa rete stradale preromana e romana fra Duino e le foci del Timavo, di nuove stazioni preistoriche in cavità e all’aperto, rinvenimenti che lo vedono sempre attivamente partecipe. Alla cessazione dell’attività della Sezione Scavi “R. Battaglia”, rivolge la sua attenzione alle ricerche sul folklore delle grotte e delle zone carsiche, dando alle stampe una quindicina di pubblicazioni sull’argomento e divenendo in breve tempo uno dei maggiori esperti nella materia a livello nazionale. Successivamente Egizio Faraone, socio della Società di Minerva e assiduo frequentatore delle attività della stessa, pur senza abbandonare l’interesse per il folklore, entra nel filone di ricerche in cui eccelle questa Società, affinandosi nelle indagini storiografiche sulle ricerche dell’acqua per la città di Trieste. Gli anni di meticolose investigazioni negli archivi del Comune e nell’Archivio di Stato si concretizzano in una serie di corpose monografie coprenti la prima metà dell’800 e pubblicate sugli Atti e Memorie della Commissione Grotte. La dozzina di ponderosi studi sulle peripezie che nell’Ottocento hanno caratterizzato la ricerca di fonti di acqua potabile per l’emporio in via di rapida espansione costituiscono dei punti fermi cui dovranno far riferimento tutti coloro che in futuro vorranno affrontare quest’argomento. Di profonda cultura umanistica, ha lasciato legato il suo nome a una settantina di scritti spazianti dall’archeologia carsica al folklore delle grotte e dei territori carsici, nonché alla storia della città di Trieste. La morte non gli ha permesso di veder pubblicati gli ultimi elaborati, già pronti per la stampa, né di completare l’opera di ricerca e assunzione dati, giunta ormai alle soglie del XX secolo. (da Il Piccolo del 25 luglio)

Venticinque anni dalla morte di Carlo Finocchiaro

Il 19 luglio 1983 moriva a Trieste Carlo Finocchiaro. Venticinque anni fa: tanti ne sono ormai trascorsi. Nel frattempo la speleologia triestina, come quella a scala maggiore, è profondamente mutata. A Trieste, degli stessi attori del tempo, non molti sono quelli rimasti attivi nella speleologia: alcuni non ci sono più, altri hanno lasciato per “limiti d’età”, altri ancora hanno sviluppato tutt’altro interesse. Tuttavia, a venticinque anni di distanza, questa notevole figura di speleologo, che è stato presente per oltre quarant’anni sulla scena speleologica, e limitiamoci solo a quella italiana, costituisce ancora un esempio di dedizione alla speleologia, in particolare a quella “sua” Commissione Grotte “Eugenio Boegan” alla quale, innegabilmente, diede il meglio di sé, del proprio tempo, della propria cultura, del proprio ingegno.

In una speleologia triestina – ma si può parzialmente estendere il discorso a quella regionale – dove da parte dei gruppi grotte c’è quasi un senso, ancora non stemperato, di rigido possesso delle proprie radici più lontane, come se il patrimonio di esplorazioni, studi e uomini, che col passare degli anni diventa “storico”, così, col tempo non si accasasse invece, maggiormente forte e duraturo, con una più ampia, fino agli estremi di una universale, identità comune – quella di un’intera collettività – ebbene, ai più – ai tradizionalisti, tanto per usare un luogo comune – forse apparirà strano come io, che proprio da circa venticinque anni non sono più membro di quella Commissione Grotte, di un tempo, scriva in ricordo di quest’uomo che s’identificò, totalmente, in quel gruppo. Con l’onestà, e la dignità, di non voler sottrarre nulla e a nessuno.

Sul contributo di Carlo Finocchiaro alla speleologia rimando il lettore agli scritti pubblicati venticinque anni fa dai suoi consoci della Commissione Grotte, dalle persone che più d’altri, nella speleologia, gli sono state vicine. Sono parecchi articoli, comparsi in varie riviste, dal locale Atti e Memorie al nazionale Speleologia e così via, in cui è stata tracciata la vita e l’azione di questo notevole speleologo italiano del ‘900, ben documentati, meritatamente celebrativi. Carlo Finocchiaro, dunque, protagonista della grande speleologia italiana d’alcuni decenni fa, poiché in tale contesto si cala precisamente il suo ruolo. Il presente approfondimento potrà essere invece, a venticinque anni di distanza, un’occasione per i nostri giovani speleologi (che non hanno potuto conoscerlo) per rispolverare vecchie riviste e leggere gli articoli di quel tempo, così comprendere l’emozione che, palpabile, quella perdita causò alla speleologia tutta, e riflettere sull’impegno reale e tangibile che quest’uomo profuse nella nostra comunità. Solamente gli articoli scritti all’epoca, infatti, possono trasmettere esattamente l’impressione su com’era considerato l’uomo – e, giustificatamente, la considerazione su di lui era alta – nonché le sensazioni provate dal mondo speleologico alla sua scomparsa, che furono di grande tristezza e di sconcerto. Io ora, invece, grazie al tempo trascorso potrò dare una lettura verosimilmente meno intimistica, forse maggiormente serena, probabilmente più concreta, ma non per questo meno celebrativa di questo speleologo con la “S” maiuscola che, anche in periodi difficili, in una società più semplice ma contemporaneamente più chiusa in sé stessa, decisamente in una speleologia affatto globalizzata, visse, costruì e lasciò ai posteri, azioni, progetti, strade da seguire, di grande rilievo speleologico, parecchie delle quali tutt’oggi sono fondanti la nostra speleologia, non solo locale ma nazionale.

Mi limito ad alcuni accenni biografici. Nato nel 1917, Carlo Finocchiaro inizia andare in grotta nel ’34 – quindi a 17 anni, giovanissimo, anche lui come vuole la più schietta tradizione triestina – entrando nella Commissione Grotte di allora nel 1936, perciò conoscendo il grande Eugenio Boegan (che morirà nel ’39). Da subito ottimo esploratore, all’interno di una piccola compagine di giovani fortemente motivati, molti dei quali diverranno come lui illustri, maestro elementare, s’inserisce immediatamente nel filone “colto” della speleologia. Non è un caso se nel 1938 il giovane Carlo scende, assieme al compagno Luciano Medeot, l’imponente verticale di 285 metri dell’Abisso di Leupa sulla Bainsizza (Alto Carso) – che divenne l’allora più profondo pozzo del mondo – ma ciò che è predittivo è che il Boegan, direttore de Le Grotte d’Italia, gli pubblicò sulla prestigiosa rivista il suo articolo sull’esplorazione e la morfologia dell’abisso. Nel settembre del 1939 la Germania invade la Polonia; per l’Italia è un susseguirsi di chiamate alle armi (l’Italia, fatalmente, entra in guerra il 10 giugno del ’40). Carlo Finocchiaro sarà ufficiale dell’Esercito, vivrà di persona le dolorose pagine della ritirata del Don, poi sarà prigioniero dei russi e, sopravissuto, rientrerà in Italia appena nell’agosto del 1946. Per lui la speleologia, in pratica, ricomincerà nel ’48, quando la Commissione Grotte ufficialmente riprenderà l’attività, un paio d’anni dopo la costituzione dei primi, grandi, gruppi triestini del secondo dopoguerra. Per Carlo Finocchiaro, come per altri giovani speleologi suoi coetanei, ci fu un “buco nero”, incolmabile, di circa nove anni: gli anni che avrebbero potuto essere, forse, i più belli, quelli dell’età dai venti ai trenta… chissà cosa in quegli anni, in pace e spaziando sulle grandi aree carsiche della Venezia Giulia – magari sull’Alto Carso o sul Canin che fu ricognito immediatamente prima dello scoppio del conflitto – il giovane Carlo avrebbe potuto dare alla speleologia? Ed è con quella parentesi, drammatica, che va inquadrata l’intera successiva opera di Finocchiaro: uomo “di mezzo” della rinata speleologia triestina: tra i pochi ritornati ad un’attività speleologica iniziata anteguerra, con da una parte vecchi soci che ormai vivevano di ricordi e da un’altra dei giovanissimi privi di qualsiasi esperienza. Esploratore degli anni ’50, ancor valido, che affronta da uomo maturo e responsabile le fatiche degli inghiottitoi del Ciaorlec, con ben chiaro nella mente un vero “progetto esplorativo” su quell’altopiano delle Prealpi Friulane, portatore di un ancor più chiaro insegnamento, essendo uno tra quegli speleologi triestini che raccolsero quell’eredità morale del Boegan che propugnava: Speleologia = Scienza, conscio cioè che essa, semplicemente, “passa” per l’esplorazione, – ebbene – Carlo Finocchiaro diviene, attraverso i suoi studi geomorfologici nelle Grotte di La Val e del Ciaorlec in generale e con la sua costante e fattiva presenza ai congressi nazionali di speleologia e nella politica speleologica italiana degli anni ’50, uomo e speleologo di riferimento. Ciò – si badi bene – non tanto dovuto al fatto che egli nel ’53 assunse la presidenza della Commissione Grotte “Eugenio Boegan” (a quel tempo le presidenze ancora contavano, oggi valgono ben poco!) per cui divenne, per così dire, la voce di una delle più prestigiose realtà speleologiche italiane, quanto invece – secondo me – al riconoscimento, che vi fu, della sua capacità in campo scientifico, della sua visione e del suo carisma in campo esplorativo, ed infine della sua statura nel campo dell’organizzazione della speleologia. Ed è a questo suo alto profilo in campo organizzativo che si volle contraddistinguerlo dagli anni ’60 in poi, quando, totalmente assorbito dagli impegni (oggi si direbbero gestionali) della “sua” “Commissione”, e nazionali, sia per l’età che avanzava sia per la maturazione di altri e più giovani speleologi (quelli veri!), rallentò il suo diretto impegno nel campo prettamente esplorativo e scientifico. È innegabile la sua visione a trecentosessanta gradi della Speleologia. Colto protagonista per decenni della speleologia italiana, sostenne e fece realizzare, nell’ambito dell’attività della “Boegan”, esplorazioni, studi, divulgazione della speleologia e propaganda della stessa, editoria, nonché la costruzione di opere, come quelle della Grotta Gigante ed un bivacco sul Canin. Mai si sottrasse al “dovere morale” di incentivare, quale massimo responsabile della Commissione Grotte, le grandi esplorazioni ed i più difficili studi nell’ambito delle potenzialità e della discrezionalità di cui disponeva. Mai sopito il suo interesse scientifico in speleologia, ancor nel ’62 pubblica un apprezzato studio sulla paleoidrografia carsica dell’Alburno – zona cui egli si dedicò fin dalla prima campagna – concludendo poi il suo contributo alla ricerca in quest’area con un ulteriore studio sulle cavità, del ’72. Ma ancor prima aveva partecipato alla ripresa delle esplorazioni e delle ricerche scientifiche a Sciacca – altra zona a lui cara – dove intuiva la possibilità di grandi scoperte: dalla preistoria all’archeologia, dalla speleogenesi all’idrogeologia, fino alla fisica del clima ipogeo, per non parlare della possibilità di sperimentare tecniche, attrezzature e materiali d’esplorazione assolutamente innovativi onde poter affrontare quell’ambiente ipogeo particolarmente ostile: insomma, una speleologia a trecentosessanta gradi ma… sempre rivolta alla scienza! Del resto, non aveva egli sempre considerato le esperienze sociali nel campo delle “grotte sperimentali”, che furono realizzate da esperti studiosi coordinati dal Polli alla “Gigante”, alla “Doria” ed alla “12”, come – tangibile dimostrazione della bontà di un coordinato rapporto tra gruppo grotte, speleologi, scienziati ed enti di ricerca – tra quelle migliori? Non aveva forse fortemente voluto la nascita di una collana, edita dalla “Commissione”, esclusivamente dedicata alla ricerca scientifica? E sarà così, e per sua volontà, che la rivista Atti e Memorie prese il via nel ’61! Se centinaia di studi sono stati finora pubblicati su Atti e Memorie, ciò si deve alla lungimiranza di Carlo Finocchiaro ed alla sua visione globale del “problema speleologia”. Non supportò forse, in ogni modo, le spedizioni della “Commissione” che si susseguirono sul Canin a partire dal ’63, che s’inserivano di diritto nella grande “speleologia di esplorazione”, concependole in un quadro di conoscenza dell’area come risulta dai suoi scritti? E non comprese forse – ad un certo punto – che il vasto lavoro esplorativo della “Commissione”, in quanto tale, avrebbe dovuto trovare naturale collocazione in una rivista specifica, più “leggera”, facendo nascere nel ’78 Progressione? Senza contare il suo personale e forte impegno per la realizzazione di una Scuola Nazionale di Speleologia nell’ambito del CAI, tanto ché nel 1959, con l’approvazione del Comitato scientifico del Club allora presieduto dal Nangeroni, la “sua” Commissione Grotte organizzò il primo corso a Trieste.

Concludo qui, senza enumerare gli altri suoi molteplici impegni a favore della speleologia, che altri prima di me hanno illustrato. Quando Finocchiaro morì, io mi trovavo fuori Trieste, ebbi così solo la possibilità di inviare un telegramma di cordoglio alla famiglia, non potendomi recare alle esequie. Quest’articolo, perciò, mi pare una sorta di debito. All’epoca della sua morte, ricordo, io non ero più socio della “Commissione” da uno o due anni. Debbo dire d’essere riconoscente a Finocchiaro, poiché frequentandolo assiduamente per un decennio – periodo in cui io riuscii a produrre, anche grazie alla “Commissione”, una serie di studi che, per così dire, avviarono il filone della moderna geomorfologia ipogea, almeno sul Carso – da lui appresi molto, comprendendo la globalità e la modernità del suo pensiero in materia di speleologia. Detto da me che – com’è noto – non ebbi un rapporto con lui tra i migliori, dato che le divergenze tra noi furono sempre palesi, può assumere un preciso significato: quello di storicizzare, in modo fermo, la sua grande statura di speleologo, che tale rimane, non intaccata, a venticinque anni di distanza. Non che ce ne sarebbe bisogno… è uno degli uomini che, limitandoci alla sola speleologia triestina, ha più contato, ed è riduttivo dirlo. Dalla morte di Carlo Finocchiaro la speleologia, come ho esordito, è profondamente mutata: è un fatto! Rimanendo nel piccolo, a Trieste o nella regione, alle esaltanti scoperte esplorative degli ultimi venticinque anni grazie ad innumerevoli spedizioni, durante le quali sono stati frantumati record su record, si è contrapposto, man mano, col passare degli anni, lo scollamento tra esplorazione e ricerca scientifica, che si è reso sempre più evidente giacché progressivamente, come scivolando su una china, nell’ambito dei gruppi grotte si sono assunti valori ed obiettivi diversi da quelli fondativi. Certo più facili da perseguire, meno intellettualmente dispendiosi da ottenere, sicuramente “popolari” nel senso che le dirigenze ne riscuotono il consenso (panem et circenses), ma che, inevitabilmente, depauperano gravemente i contenuti stessi della speleologia. Senza timore di smentita, affermo che ciò non rientrava nel pensiero speleologico di Finocchiaro; egli non avrebbe voluto si scivolasse lungo questa china. Non è retorico, non avendo la banalità di un luogo comune cucito alla circostanza della commemorazione, invitare i giovani d’oggi, ma soprattutto i responsabili della speleologia odierna, a meditare sull’opera di Carlo Finocchiaro: là ci sono chiavi di lettura, semplici e chiare, per risalire la china, per concepire una speleologia globale, moderna, direi virtuosa, e che guarda sempre al futuro.

Rino Semeraro