Le grotte inquinate del Carso ripulite dai profughi speleologi

Una quindicina di migranti ospitati dall’Ics al lavoro assieme agli esperti del Club alpinistico
L’ideatore del progetto Gasparo: «Un modo per socializzare e rendersi utili per la collettività»

nz_ts-cronaca-07092016_1Il gruppo è composto da ragazzi dai 25 ai 32 anni, per metà provenienti da Nigeria, Kosovo e Camerun e per metà di etnia pashtun

di Giulia Basso
da Il Piccolo del 7 settembre 2016

Per le tante cavità naturali che ospita, il Carso è come una forma di groviera, ma i suoi tanti buchi, soprattutto negli anni ’60 e ’70, sono stati usati per scaricarvi immondizia e rifiuti di ogni genere: sono almeno 320 le grotte del Carso triestino in uno stato di degrado allarmante. A ripulirle ci pensa ora una squadra speleologica molto speciale, composta da una quindicina di migranti ospitati dall’Ics, coinvolti su base volontaria, assicurati e adeguatamente formati, e alcuni esperti del Cat (Club alpinistico triestino). È la soluzione triestina all’appello lanciato nelle scorse settimane dal prefetto Morcone, capo del Dipartimento immigrazione del Viminale, che in un’intervista al Corriere della Sera raccomandava ai Comuni: «Affidiamo ai profughi lavori utili alla collettività».

Una soluzione meditata a lungo per non dare adito ad alcuna polemica: «Siamo abituati a sentirci dire che i migranti non fanno nulla vivendo a nostre spese, ma se poi gli si trova un’occupazione è facile che si rivolti la frittata lamentando che rubano il lavoro agli italiani. E le beghe sindacali sono dietro l’angolo. Così abbiamo pensato di coinvolgerli in un’attività che non svolge nessuno se non i volontari dei gruppi speleologici, ma che è decisamente preziosa per la tutela ambientale del nostro territorio» racconta l’ideatore del progetto, Dario Gasparo, che ha deciso di portarlo avanti con la sua associazione di volontariato Mi-Ti, nata in ricordo del figlio Mitja per aiutare i giovani e per trasmettere loro la passione per lo sport e l’ambiente. «Per i migranti – spiega Gasparo – sarà un modo per riempire le lunghe giornate in attesa di conoscere il proprio futuro, con un lavoro che consentirà loro di socializzare e rendersi utili alla comunità».

La scorsa settimana si è svolta la prima uscita esplorativa di questa specialissima squadra di speleologi che, accompagnati anche da una quindicina di Scout dell’Agesci di Viterbo, coinvolti tramite le Acli, si sono cimentati con la discesa nella Grotta di Boriano, conosciuta anche come Grotta dell’Acqua: una cavità posta sul confine italo- sloveno che raggiunge una profondità di 24 metri, con uno sviluppo di 188 e una temperatura interna di 12 gradi. Adeguatamente attrezzati con l’apposito caschetto con luce, scout e migranti sono stati guidati e istruiti dagli esperti del Cat nella discesa e nella risalita. «Questa prima uscita è servita per conoscerci reciprocamente, testare le capacità di questi ragazzi e prepararli a dovere – racconta Sergio Vianello del Cat -, perché addentrarsi in grotta non è mai una passeggiata. Richiede molta attenzione e significa fare i conti con il buio, il freddo e l’eventuale claustrofobia».

nz_ts-cronaca-07092016_2L’uscita è stata preceduta da una riunione introduttiva nella sede del Cat, durante la quale ai migranti è stato esposto il contenuto del progetto. «A fronte di qualche piccolo tentennamento per le condizioni peculiari di una discesa in grotta abbiamo ricevuto adesioni entusiastiche – racconta Giulio Zeriali dell’Ics -. Al progetto partecipano su base volontaria ragazzi dai 25 ai 32 anni: per una metà sono nigeriani, camerunensi e kosovari, per l’altra sono giovani di etnia pashtun, che vengono dalle altissime montagne ai confini tra Afghanistan e Pakistan. Alcuni di loro già conoscono il mondo delle grotte nel loro Paese di provenienza».

Il Carso infatti, con la sua conformazione a groviera, presenta un ambiente simile, anche se decisamente meno impervio, ai monti in cui questi ragazzi sono cresciuti, ricchi di rocce calcaree in cui l’acqua ha ricavato chilometri di tunnel, antri e grotte. «Tra le tante cavità del Carso che in passato sono state usate come immondezzaio – sottolinea Sergio Vianello – con i volontari del Cat in alcuni anni ne abbiamo ripulite alcune. Grazie a questa collaborazione potremo fare di più: abbiamo individuato finora tre grotte a cielo aperto e una dolina che non necessitano di particolari attrezzature e su cui si concentreranno i nostri interventi di pulizia, che a partire da settembre diventeranno sistematici ». Le cavità, che presentano tutte problemi di rifiuti, sono la Benedetto Lonza, vicino a Rupingrande, il Burrone a Nord Ovest di Trebiciano, il Pozzo a Precenicco e una dolina vicino a Fernetti che nel tempo si è trasformata in un lago di bottiglie di plastica.

Le interviste

nz_ts-cronaca-07092016_shakibShakib sogna un futuro da traduttore

Shakib è un rifugiato afghano di 26 anni, un bel ragazzo che parla benissimo l’italiano. È a Trieste da circa un anno ed è talmente entusiasta di vivere in questa città da far invidia ai triestini doc. «A Trieste, grazie all’Ics, ho trovato una nuova vita – racconta -: con gli operatori e gli altri migranti siamo come fratelli. Ma mi manca la mia famiglia: in Afghanistan abitavamo tutti assieme e io facevo il contadino, aiutando nel lavoro mio padre e mio fratello. Dell’Italia mi piace anche questo, il grande valore che date alla famiglia, è lo stesso chele attribuiamo noi afghani».

Nel suo primo anno di permanenza a Trieste Shakib, che nel suo Paese ha studiato fino ad ottenere il diploma di maturità, imparando anche l’inglese, si è applicato per apprendere nel più breve tempo possibile l’italiano: «Ho frequentato tutti i corsi di cui sono venuto a conoscenza – spiega -: quelli organizzati nel Centro Diurno, quelli in Biblioteca Quarantotti Gambini e i tanti messi a disposizione dalle varie associazioni di volontariato che operano sul territorio». Il sogno di Shakib, una volta conclusa la procedura per la richiesta d’asilo, è trovare un impiego come traduttore. Ma anche se dovesse trovare un altro lavoro gli andrebbe benissimo lo stesso. Come molti suoi connazionali Shakib ha scelto la fuga perché continuare a vivere in Afghanistan era troppo pericoloso. Anche se gli americani e le truppe della Nato se ne sono tornati a casa quasi integralmente, la guerra in quel Paese non è per nulla finita. Fatta eccezione per le grandi città, nel resto dell’Afghanistan, nella sterminata e impenetrabile vastità di vallate brulle e di montagne azzurre che costituiscono la maggior parte della regione, i talebani hanno sempre mantenuto, spesso con il terrore, il controllo delle popolazioni locali e del territorio.

Shakib viene dalle vallate e in grotta non c’era mai stato, ma ha apprezzato molto questa esperienza. «Gli esperti del Cat sono stati molto gentili e simpatici» dice. Quanto ai suoi compagni di avventura Shakib è contento di viverci assieme: «Non ho problemi con nessuno di loro – ci tiene a sottolineare -, indipendentemente dalla loro razza o religione d’appartenenza siamo una grande famiglia».

nz_ts-cronaca-07092016_asifAsif, dai monti del Pakistan all’Altipiano

Per Asif, giovane migrante pakistano, l’esperienza in grotta non è una novità: nel suo Paese ci è stato più volte, ma questa giornata vissuta con il Cat gli ha comunque permesso di conoscere meglio le caratteristiche dell’ambiente carsico, con le sue stalagmiti e le formazioni calcitiche. «Vicino al luogo dove abitavo in Pakistan ci sono alte montagne, dove sono state scavate numerose miniere di rame e ferro – racconta il ragazzo -. Si tratta di una grande ricchezza del nostro sottosuolo che però non possiamo sfruttare, perché non possediamo i macchinari adatti e perché non ci sono le condizioni per operare in sicurezza. La zona montuosa è la più pericolosa, perché i talebani si annidano lì e fanno di tutto per mettere le mani sulle ricchezze minerarie del Paese. Se ho deciso di intraprendere un lungo viaggio per giungere fino a qui è stato proprio perché non c’era altra soluzione per sfuggire al terrorismo – spiega -. Ma in Pakistan è rimasta la mia famiglia, mia moglie e i miei quattro figli, e non c’è giorno in cui io non pensi a loro con nostalgia e preoccupazione ».

Il sogno di Asif è quello di riuscire, un giorno, a portare anche loro in Italia, dove, ci dice, ha potuto iniziare una nuova vita. Per arrivare a Trieste ha affrontato un viaggio della speranza di 45 giorni, seguendo la cosiddetta “rotta balcanica”. È passato attraverso otto Stati e i relativi confini: Iran, Iraq, Turchia, Bulgaria, Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia e finalmente Italia. «Quando siamo arrivati in Iran in due giorni ci hanno dato solo un po’ di pane ed acqua. In Bulgaria siamo stati fermi per tre giorni in una foresta, dove ci siamo imbattuti in orsi e bisce d’ogni genere. Siamo arrivati in estate, ad agosto, eppure nella foresta ha piovuto per giorni».

Scappato dal terrorismo, a Trieste Asif spera di costruirsi una nuova vita, ma non riesce a smettere di pensare ai pericoli che corre quotidianamente la sua famiglia rimasta in Pakistan. E ha nostalgia per la propria famiglia anche Rosie, l’unica donna dello speciale gruppo di migranti-speleologi che si faranno carico della pulizia delle grotte del Carso. Rosie, che viene dal Camerun, non era mai stata dentro una grotta e il buio e il freddo l’hanno un po’ intimorita, ma garantisce: «Ci sarò anche la prossima volta».

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